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chiamo, così magari mangiamo insieme».
Adesso sembrava che avesse fretta, più che altro. Ho fatto per dargli il mio nuovo numero; lui
ha detto che ce l'aveva già. Ha detto: «Non ti buttare giù, Roberto, è una sistemazione come
un'altra, vedrai che va bene, alla fine».
Quando ho messo giù ero perplesso. Non capivo perchè Polidori si fosse tanto seccato;
perchè avesse cambiato idea; quali aspettative avesse su di me. Ho staccato la riproduzione di
Van Gogh dal muro e l'ho nascosta in un angolo buio; ho spalancato la finestra, di nuovo ho
dovuto subito richiuderla. Maria Blini mi sembrava l'unico punto di conforto in un panorama
indecifrabile; speravo con intensità concentrata che mi telefonasse.
Bedreghin è rientrato verso le sei di sera, sfinito e di pessimo umore dopo la sua riunione per
la sceneggiatura. L'ho sentito che riapriva la porta della sua stanza, buttava qualcosa per terra e
richiudeva a chiave. Poi è venuto da me, dato che l'unico telefono della casa era nella mia stanza.
Mi ha detto: «Lì da me chiudo perchè ho tutto il mio lavoro sparso in giro»: come se questa
spiegazione rendesse la cosa meno offensiva nei miei confronti.
Mi ha chiesto anche se potevo lasciarlo solo mentre telefonava; dalla cucina l'ho sentito dire:
«Cazzo ci posso fare se adesso gli esterni li vogliono spostare a Parigi. Non è mica colpa mia, li
mortacci de la sua nonna. Comincino a darmi la prima rata, intanto».
Avevo già notato alla redazione che soprattutto quando parlava di lavoro tendeva ad
assumere una sembianza di accento romano, che si combinava male con il suo accento veneto di
base.
Poi è venuto in cucina, ancora fremente di ragione; mi ha detto: «Sti figli di una mignotta, non
puoi girare le spalle nemmeno un attimo. Non è che cerchino di fregarti solo una volta, hai capito?
Di principio è di fregarti due e tre e quattro volte se gli riesce, e tutto il tempo sono lì che ti
sorridono e fanno gli amiconi. Vedrai anche tu, se ti capita di lavorare un po' in giro».
Lo guardavo in piedi vicino al frigorifero, nel suo completo di lana troppo azzurra per essere
blu, con la camicia strapazzata e i pantaloni troppo lunghi, e mi sono reso conto che c'era una
vena di vulnerabilità nei suoi modi rozzi e arroganti e ansiosi. Sembrava sfibrato dal continuo
guardarsi alle spalle, da una vita solitaria e mal dormita e mal mangiata, male abitata in quel
piccolo appartamento cupo e polveroso.
Non è durato molto, in ogni caso; quasi subito ha ripreso a sorridere con la sua brutta ironia
non divertita, mi ha detto: «Ho visto il tuo capolavoro di romanzo, lì sul tavolo».
Gli ho detto: «Ci sto lavorando, non è finito»; sono andato a rimetterlo nel cassetto, ho chiuso
la porta, mi sono buttato sul mio divano-letto instabile a una piazza, ad aspettare che Maria Blini
mi telefonasse. Ma lei non mi ha telefonato. Ho aspettato le sette e mezza e le otto e le otto e
mezza; niente. Camminavo avanti e indietro, socchiudevo la finestra e guardavo fuori nella piazza
a imbuto buia ma ancora piena di rumore. Nemmeno Polidori si è fatto vivo; mi sembrava di
andare incontro a una serata di desolazione pura.
Bedreghin è sceso a comprarsi qualcosa in una rosticceria, quando è tornato ha detto: «Tu
sei a dieta, Bata?», prima di richiudersi a chiave nella stanza con i suoi cartocci unti e le carte
segrete di lavoro.
Alle nove ho provato a telefonarle io, senza nessuna vera speranza di trovarla. Invece di
nuovo ha risposto lei quasi subito, in un tono ancora più apprensivo di quando l'avevo trovata nel
pomeriggio. Le ho detto: «Ero sicuro che fossi uscita».
Lei ha detto: «No».
«E stai per uscire?» le ho chiesto io.
Lei ha detto; «Non so». Sembrava combattuta, di umore non limpido. Poi di colpo mi ha detto:
«Vuoi che ci vediamo?».
Le ho chiesto subito dove potevo andarla a prendere, ho scritto l'indirizzo sul primo foglio del
mio romanzo tirato fuori dalla cartella senza riguardi. Poi sono corso giù per le scale, mi sembrava
di essere diventato del tutto impermeabile allo squallore. Ho attraversato il traffico della città più in
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